I social network sono talvolta utilizzati come valvola di sfogo per esprimere la propria rabbia e le proprie frustrazioni ma offendere il proprio datore di lavoro è reato, anche se l'offesa viene perpetrata a mezzo Facebook. E' questo il principio affermato dalla recente sentenza n. 49506/2017 della Corte di Cassazione sezione penale. Secondo la sentenza in commento, è reato offendere il datore di lavoro su Facebook se non viene denunciato il furto dell’account poiché in questo caso l’azione sarà ricondotta al titolare del profilo. Nel caso di specie un dipendente pugliese offendeva il proprio capo area sfogandosi su Facebook, il noto social network e subiva la condanna dai giudici sia in primo che in secondo grado che gli comminavano una multa di mille euro oltre il risarcimento dei danni. Dal processo è emerso che le affermazioni contenute nei messaggi pubblicati erano chiaramente offensive e, tra l'altro, non vi era prova della veridicità dei fatti addebitati al capo area; oltretutto la gravità dei fatti in contestazione aveva portato la Corte d'appello anche ad escludere l’applicabilità dell'art. 131-bis del codice penale (esclusione dalla punibilità per particolare tenuità del fatto). Il lavoratore si è così rivolto in Cassazione sostenendo che il proprio account Facebook gli era stato rubato. La Corte ha però ritenuto inammissibile il ricorso presentato dal dipendente confermando l'osservazione della Corte d'Appello secondo cui se manca la denuncia di furto di un account Facebook non può porsi in discussione la riconducibilità dello stesso al titolare, tanto più se l’immagine del proprietario compare nella foto della pagina e, soprattutto, se in uno dei post, come nel caso di specie, si fa riferimento a una querela subita per i fatti oggetto di causa. La Suprema Corte ha pertanto ritenuto inammissibile il ricorso presentato dal lavoratore, confermando la pena inflitta nei gradi di giudizio precedenti.
Sull'argomento ricordiamo che più volte in passato la giurisprudenza di legittimità aveva precisato che l'inserimento di un commento sulla bacheca di un social network equivale a dare al messaggio una diffusione tanto ampia e capillare da raggiungere potenzialmente un numero illimitato di persone, pertanto laddove il contenuto del messaggio sia offensivo, deve ritenersi integrata la fattispecie di reato per diffamazione (art. 595 c.p.), aggravata come se tali messaggi fossero diffusi a mezzo stampa. La Suprema Corte ha infatti ribadito che per integrare il reato anzidetto è sufficiente che il soggetto, la cui reputazione è lesa, sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dall'individuazione nominativa. (cfr. Cass. n. 8328/2016, Cass. n. 24431/2015).
(fonte :leggi di lavoro)
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